sabato 11 settembre 2010

Giu' la testa

Edward W.Said (1935-2003) critico letterario e personaggio di spicco nel panorama culturale contemporaneo, compila un bellissimo profilo di Glenn Gould pubblicato dalla rivista Vanity Fair nel numero di maggio 1983. Said passa in rassegna vari aspetti della vita artistica di Gould. Pianista dotato di tecnica eccezionale, tocco inconfondibile, insolita capacità di concentrazione e trasporto durante le esecuzioni e poi ancora la scelta nel 1964 di abbandonare la scena a favore della sala d’incisione sfruttando così l’universo tecnologico che si spalancava innanzi ai suoi occhi in termini di infinite possibilità di riproduzione. Tutto ciò ha contribuito a fare di Gould un pianista che è stato spesso definito dalla critica “eccentrico” soprattutto se guardiamo a quelle esecuzioni in cui arrivava addirittura a sostituirsi al direttore d’orchestra con gesti non sempre intellegibili.
Ma nel leggere il contributo di Said su Gould cominciò nella mia mente a comporsi pian piano l’immagine di un altro pianista americano, a cui, artisticamente, devo tutto. E’ proprio nel momento in cui egli parla di alcune stravaganze in cui Gould era solito esibirsi come intrecciare i propri “mugolii” al suono del pianoforte e suonare in modo che il busto fosse inclinato verso la tastiera con la testa bassa quasi a sfiorare le dita, che la figura di Keith Jarrett si sovrappose a quella del pianista canadese.
Ricordo, anni fa, durante un corso di civiltà afro americana all’Università di Lecce tenuto da Gianfranco Salvatore, di essere rimasto quasi impressionato dopo la visione di un trailer del concerto di Miles Davis all’isola di Wight nella cui band c’era Jarrett al piano elettrico. The isle of Wight è stata una tappa fondamentale per la storia del jazz da un lato e per il mondo del rock dall’altro. Era la prima volta che un esponente della tradizione jazz, un’icona come Davis, si esibiva al cospetto di milioni di persone per cui , sicuramente, il momento più atteso sarebbe stato il concerto di Hendrix.
Rimasi profondamente colpito da quella musica dai tratti estatici e demonicaci e fui catturato in particolare dal modo in cui Jarrett lasciava che il suono lo attraversasse al punto che con i continui movimenti circolari del capo sembrasse voler simulare antichi rituali coreutici sciamanici.
Ciò che fa di Jarrett un musicista unico ed eccentrico tra i pianisti attivi sulla scena jazz contemporanea è quella qualità che si staglia come complementare alle sue indiscusse doti virtuosistiche di cui sarebbe quasi inutile farne accenno. Parlo della forte componente teatrale che caratterizza il pianista statunitense in tutte le sue esecuzioni e che cattura l’attenzione del pubblico per lo spettacolo offerto loro in termini di qualità tecnica e prestanza fisica con una generosa dose di ironia.
Come afferma Said, a ridurre progressivamente l’interesse nei confronti di diversi interpreti e pianisti contemporanei, tanto nella classica quanto nel jazz, è proprio il fatto che il loro modo di suonare subisce passivamente il limite imposto dalla cornice che viene imposta loro: un palco, un pianoforte, gli applausi, le connesse gratificazioni economiche e sociali. E’ quello che caratterizzava negli anni ottanta acclamati pianisti come Alfred Brendel, Andrè Watts, Murray Perahia, il cui modo di suonare non doveva entusiasmare particolarmente, se il pubblico pagante e soprattutto la critica preferivano un Maurizio Pollini che si inoltrava nelle sue due ore a disposizione con intensità sempre maggiore e quasi incredibile.
Alla categoria dei pianisti, oserei dire, “conformisti” dell`ultimo ventennio appartiene anche il diretto concorrente di Jarrett, Chick Corea. Quest’ultimo, pur essendo rispettabile per la sua serieta` e la sua onorevole carriera, le sue indiscutibili qualita tecniche, a mio avviso,`non possiedono nulla di eccitante sul piano teatrale.
Le due sessioni normalmente di un’ora ciascuno a cui i grandi club hanno abituato il pubblico del jazz, non fanno altro che cristallizzare le performances concertistiche in un qualcosa che assomiglia sempre più a merce preconfezionata di cui sono complici manager, musicista e non in ultimo il pubblico che, ragionando in termini economici, fa il prezzo.
Un’esperienza simile ricordo di averla vissuta di recente in occasione del concerto di Corea al Blue Note di Milano in trio con Stanley Clarke al contrabbasso e Lenny White alla batteria. (The Power of Three).
Cinquanta minuti di musica di altissimo livello, serviti al pubblico come una cena nel miglior ristorante di Milano.
Corea, col suo solito riso saccente e compiaciuto, misurato e antiteatrale, senza mai “aggredire” e impressionare il pubblico, nonostante le sue formidabili capacità tecniche, lasciò che il mio sguardo incontrasse l’impressionante eccentricità di Clarke in grado di sorprendere facendo vibrare ogni angolo del suo contrabbasso.
Poter vedere, e non solo ascoltare, un’esecuzione musicale, significa per il pubblico fare un’esperienza molto più piena e completa di quell’esecuzione, soprattutto quando sulla scena ci sono professionisti dell’arte musicale come Jarrett e Gould.
Negli ultimi 10 anni ho potuto ascoltare gran parte della sterminata produzione discografica di Keith Jarrett e tutte le volte ho come la sensazione che voglia comunicare qualcosa di nuovo. Un grande compositore/interprete lo si riconosce dal fatto che anche dopo 25 anni di carriera come quelli festeggiati dal Keith Jarrett Standards Trio con l’ultima uscita “Yesterday” (ECM, 2009), riesca ancora ad esprimere qualcosa di profondo.
Mai, come in Jarrett, l’elemento visivo ha avuto effetti tanto importanti nella storia del jazz per il senso di completezza che esso può dare a un’esecuzione musicale in termini di forte partecipazione emozionale.
Ascoltare Jarrett in una registrazione sarebbe come, forzando volutamente i limiti del confronto, privare l’opera teatrale dell’elemento visivo tradendo in questo caso anche la volontà del compositore che ha pensato le parti dei cantanti/attori mettendo in conto gli “ostacoli” che una messa in scena comporta.
Ciò che vediamo può amplificare certe qualità dell’interpretazione o enfatizzare determinati momenti dell’esecuzione in cui dall’artista ci si aspetta il massimo delle sue potenzialità espressive.
L’esperienza di un concerto di Jarrett deve essere vissuta ad occhi aperti partecipando emotivamente alla sua gestualità che mai finirà per compromettere o, in ultima analisi, distruggere le sue intenzioni interpretative.
Quel continuo agitarsi, ondeggiare, sollevarsi al punto di eseguire una cascata di trentaduesimi praticamente in piedi, sono gli effetti evidenti della sua irrefrenabile carica emotiva impossibile da trattenere, che assume connotati “selvaggi” quando lascia che i suoi chorus vengano interamente doppiati, per non dire, generati dai gemiti della sua voce.
In questo testa a testa tra due grandi artisti che hanno contribuito a scrivere la storia musicale del recente passato e che continueranno a segnare il passo per le future generazioni di pianisti compositori e interpreti (tralasciando le differenze di genere che diamo in consegna ai critici), una posizione non poco rilevante l’ha avuta il genio tedesco J.S Bach.
Le sue lezioni sono state pienamente assimilate da colui che oggi è considerato il maggiore interprete di buona parte della produzione tastieristica del compositore di Lipsia, vale a dire Gould, e curiosamente da un “jazzista” la cui tecnica improvvisativa, strizza l’occhio alla prassi polifonico-contrappuntistica del periodo classico.
Il Bach di Gould era un mondo a parte. Gould interpretava la scrittura del tedesco in maniera sublime, suonando, come se intendesse articolare anche delle idee, tant’è che «le sue esecuzioni non si esauriscono in se stesse, ma assurgono al rango di un vero e proprio progetto estetico e culturale» (E.W.Said, Vanity Fair, maggio 1983).
L’incisione delle Variazioni Goldberg di Gould (CBS, 1955) resterà un monumento della storia discografica del secolo scorso , il punto più alto raggiunto nella carriera del pianista canadese prima del passaggio nel 1964 dal palcoscenico al mondo della tecnologia e dell’infinita riproducibilità, ma soprattutto al luogo in cui Gould avrebbe potuto operare un maggior controllo su se stesso e su quello che lo circondava.
Il Bach che riscopriamo in Jarrett non è il Bach compositore di opere didattico-speculative ma è più quello dei Corali, delle Partite delle Invenzioni ovvero tutte opere nate da quell’eccentricità improvvisativa e da quel dono innato per la realizzazione di ardite costruzioni polifoniche che nessun altro ha saputo eguagliare prima e dopo di lui.
Il primo tributo discografico di Jarrett all’arte musicale del Thomaskantor di Lipsia avverrà con l’incisione per la ECM del primo libro del Clavicembalo ben temperato (1987), a cui seguirà, due anni dopo, quella delle Variazioni Goldberg (ECM, 1989). Nel 1990 registra il secondo libro del Clavicembalo ben tempertato, chiudendo il suo intimissimo omaggio a J.S.Bach con l’incisione delle Suite francesi e delle Tre sonate per viola da gamba e cembalo, in duo con Kim Kashkashian, nel 1991.
A parte l’appurata perizia di Jarrett al cembalo, il suo è un Bach più terrestre, meno ispirato e, oserei dire, più convenzionale. Credo che egli abbia volutamente preferito fare un piccolo passo indietro per non farne uno troppo ampio in avanti, in una direzione stilisticamente opposta a quella intrapresa senza eguali da Gould.
A mio avviso l’accostamento del pianista statunitense a Bach va individuato nel suo peculiare approccio all’arte improvvisativa facendo di lui un fenomeno isolato nella scena jazz della seconda metà degli anni cinquanta.
A partire dal trattamento della mano sinistra alla quale sarà concessa maggiore libertà di movimento, svincolandola dalla mera funzione d’accompagnamento e sostegno armonico (Left hand voicing), Jarrett intraprende un cammino di riformulazione della tecnica improvvisativa sfruttando tutte le possibilità offerte da una visione esecutiva non più sempre e solo orizzontale bensì fatta anche di linee verticali.
Le sue idee hanno trovato, solo di recente, una forma più ampia e argomentata in quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, il suo contributo teorico alla prassi pianistica: The Art of improvisation. (Euroarts, 2005).
Ed ecco che durante i suoi soli ascoltiamo bassi ostinati, voci che si intrecciano e si rincorrono, progressioni che per la loro logica e audacia armonica parrebbero in partitura pronte ad essere riprodotte dal prossimo giovane adepto se ad eseguirle non fossero le mani di un eccentrico rivoluzionario pianista americano di nome Keith Jarrett.
Pianista di Charles Lloyd negli anni ’60 e di Miles Davis dieci anni più tardi, autore di meravigliose incisioni tra cui Facing you (1971), che ha segnato l’inizio del sodalizio con l’etichetta tedesca ECM, e di altrettante memorabili performances live in piano solo.
Keith Jarrett, leader del trio più longevo della storia del jazz, nato ad Allentown l’8 maggio del 1945, oggi, si alza dal pianoforte, va al microfono e dice:
No photo, I said. The music s a flux, you don’t understand, it’s a question of respect.
Giù la testa.

Donato D’Attoma

domenica 22 agosto 2010

Processo creativo

Nell’ambito di un processo creativo che abbia come punto di partenza per l’artista/compositore, un’immagine, che ancor prima di formarsi nella sua mente è ben visibile nella staticità apparente di un’opera d’arte, dimostra quanto le diverse manifestazioni artistiche di qualsivoglia espressione estetica siano parte di un unico linguaggio supremo che è l’arte.

Ciò consente, in maniera assolutamente spontanea e con un potenziale comunicativo illimitato, la connessione tra forme d’arte altrimenti dette figurative, dello spettacolo e, giungendo sino alle ultime manifestazione espressive del “modernismo”, della fotografia e dell’architettura. Questo è possibile quando alla base di un processo creativo che preveda l’intreccio tra arti, ci sia non tanto il fine ultimo di ingenerare nel fruitore il piacere scaturito dall’essere di fronte a una “bella” opera, quanto piuttosto l’intento di veicolare un”messaggio” della cui unicità il destinatario può apprezzarne le diverse manifestazioni.

Della potenza espressiva scaturita da una simile operazione, se ne servì già Mussorgsky quando, nel 1874, decise di dipingere musicalmente alcuni disegni e acquerelli di un suo amico artista Victor Hartmann, tanto da realizzarne un’opera, dal titolo Quadri di un’esposizione, rappresentando, sino alla sua prima apparizione, un unicum nel suo genere.

Ciò che accosta i due lavori, quello di Hartmann e quello di Mussorgsky, rendendoli complementari è la percezione di un’unica immagine fruita attraverso una dimensione visiva e una dimensione uditiva.

Una testimonianza di arte totale, quella dei due artisti russi, mostra, infine, come l’arte musicale, diversa per modalità di fruizione dalle altre arti, ha tutto il diritto di prender parte a quel genere di esperienze in cui si registra una compartecipazione sensoriale che svincola il pubblico dal ruolo di fruitore passivo.

Tocca agli addetti ai lavori far tesoro di un’eredità che proviene dal secolo scorso adattandola ai nuovi linguaggi comunicativi, tra cui la fotografia per le arti visive e il jazz per la musica eurocolta, e, soprattutto, alle esigenze del sistema produttivo culturale attuale.

D.D.

venerdì 23 luglio 2010

Logos - Start up!!!

Logos, il motto che mi ha accompagnato per tutta la vita, la parola che raccoglie migliaia di parole in un discorso tra individui pensanti, oggi è un progetto, un progetto impresso in un disco, un disco che contiene suoni, sorrisi e lacrime.
Il mio primo grazie va ai pochi amici-colleghi che dall'inizio, hanno sostenuto Logos, i cui nomi cito pubblicamente: Roberto Cipelli , Lello Patruno, Camillo Pace, Gaetano Partipilo, Enzo Rosato e mia sorella Arianna.