martedì 13 marzo 2012

Art'N Jazz Festival 2012










Pensato in un’ottica di crescita artistica costante e di continuità rispetto agli appuntamenti che l’estate conversanese riserva agli appassionati di musica jazz, Art’nJazz Festival nasce con il preciso scopo di creare un contenitore di appuntamenti culturali che guardino alla tradizione jazz afroamericana con l’occhio della contemporaneità musicale, intesa come espressione artistica di una società moderna per cui l’arte è il risultato della commistione tra arti diverse.

giovedì 9 febbraio 2012

La concezione olistica del jazz

"Chi fa del jazz migliora il livello musicale dei suoni che ci circondano e per livello musicale s'intende - altrimenti sarebbe inutile parlarne - livello spirituale, intellettuale e umano, il livello insomma del pensiero cosciente. Visto che in un'epoca nella quale nè parte un aereo nè si vende un detersivo senza sound musicali, i suoni che ci circondano influiscono direttamente sul nostro modo di vivere, sul nostro stile di vita, chi fa del jazz o chi comunque se ne interessa, porta la forza, il valore e l'intensità del jazz nella nostra vita. [...] Se mi si chiedesse qual è, a mio parere, l'aspetto più imponente della musica jazz oltre i suoi vertici musicali, risponderei: la sua evoluzione stilistica. Essa è avvenuta con la consequenzialità, la logica, la ineluttabilità, e la compattezza che hanno sempre caratterizzato l'evoluzione dell'arte autentica. Perciò questa evoluzione costituisce un tutto inscindibile. Chi isola uno degli elementi per dichiararlo l'unico valido o per condannarlo come una degenerazione, distrugge il tutto e compromette quella unità di una evoluzione a grandi linee, senza la quale, nella migliore delle ipotesi, si può parlare di mode, ma non di stili. "

J.E.Berendt

sabato 4 giugno 2011

Logos: recensione uscita per Jazz Colo(u)rs (Giugno, 2011)

La “comunicazione universale”, quella magica trasmissione generata dalla seduzione del suono, una corrente emozionale che rende vivi ed apre infiniti spazi di significato dove ridisegnare i contorni sonori di una materia fluida e mutevole che racconta e descrive senza rigorosi dettami, gratificando la cara tradizione musicale afro-americana, attraverso la personale interpretazione narrativa degli stili che hanno scritto la storia e l’evoluzione del linguaggio jazzistico. Questo è il passaggio concettuale contenuto in Logos, il disco di esordio di Donatello D’Attoma, licenziato dallaPus(h)in Records, satellite della più nota Splas(h).

Di formazione classica, il giovane pianista di Conversano si accosta al jazz grazie soprattutto all’incontro avvenuto durante gli studi musicologici a Cremona con il grande Roberto Cipelli, il quale lo ha seguito nel suo percorso di crescita, aiutandolo nella cura e nella finalizzazione di questo lavoro discografico.

La trama compositiva, concepita in buona parte a Cremona, nella stanza della residenza universitaria 2B, una traccia nel disco, è sviluppata seguendo il rapimento empatico delle note, cercando di evadere da ogni sorta di approccio strutturale metodico, raccontando il corso storico del jazz nelle sue diverse proiezioni stilistiche: da Logos, la rigorosa ballad che apre il disco, all’ironia del ragtime di Dance Macabre, al blues, passando poi dal jazz moderno fino a giungere ai libertari momenti free.

Un progetto discografico nel quale ogni musicista può esprimersi seguendo la propria indole creativa, dove tutti sono animati dalla stessa forte volontà di coesione e di confronto. Tutti i brani portano la firma del titolare, tranne Il Canto delle Sirene, interessante composizione del contrabbassista Camillo Pace, con il quale il giovane D’Attoma condivide la passione per il jazz nord europeo, nel quale entrambi si riconoscono, in virtù delle comuni radici con la musica classica e con quella popolare.

Un nuovo promettente talento che oltre a dispensare emozioni sotto forma di note, dimostra anche ottime doti tecniche nello stride piano.

Da.Ca.

http://www.jazzcolours.it/


sabato 11 settembre 2010

Giu' la testa

Edward W.Said (1935-2003) critico letterario e personaggio di spicco nel panorama culturale contemporaneo, compila un bellissimo profilo di Glenn Gould pubblicato dalla rivista Vanity Fair nel numero di maggio 1983. Said passa in rassegna vari aspetti della vita artistica di Gould. Pianista dotato di tecnica eccezionale, tocco inconfondibile, insolita capacità di concentrazione e trasporto durante le esecuzioni e poi ancora la scelta nel 1964 di abbandonare la scena a favore della sala d’incisione sfruttando così l’universo tecnologico che si spalancava innanzi ai suoi occhi in termini di infinite possibilità di riproduzione. Tutto ciò ha contribuito a fare di Gould un pianista che è stato spesso definito dalla critica “eccentrico” soprattutto se guardiamo a quelle esecuzioni in cui arrivava addirittura a sostituirsi al direttore d’orchestra con gesti non sempre intellegibili.
Ma nel leggere il contributo di Said su Gould cominciò nella mia mente a comporsi pian piano l’immagine di un altro pianista americano, a cui, artisticamente, devo tutto. E’ proprio nel momento in cui egli parla di alcune stravaganze in cui Gould era solito esibirsi come intrecciare i propri “mugolii” al suono del pianoforte e suonare in modo che il busto fosse inclinato verso la tastiera con la testa bassa quasi a sfiorare le dita, che la figura di Keith Jarrett si sovrappose a quella del pianista canadese.
Ricordo, anni fa, durante un corso di civiltà afro americana all’Università di Lecce tenuto da Gianfranco Salvatore, di essere rimasto quasi impressionato dopo la visione di un trailer del concerto di Miles Davis all’isola di Wight nella cui band c’era Jarrett al piano elettrico. The isle of Wight è stata una tappa fondamentale per la storia del jazz da un lato e per il mondo del rock dall’altro. Era la prima volta che un esponente della tradizione jazz, un’icona come Davis, si esibiva al cospetto di milioni di persone per cui , sicuramente, il momento più atteso sarebbe stato il concerto di Hendrix.
Rimasi profondamente colpito da quella musica dai tratti estatici e demonicaci e fui catturato in particolare dal modo in cui Jarrett lasciava che il suono lo attraversasse al punto che con i continui movimenti circolari del capo sembrasse voler simulare antichi rituali coreutici sciamanici.
Ciò che fa di Jarrett un musicista unico ed eccentrico tra i pianisti attivi sulla scena jazz contemporanea è quella qualità che si staglia come complementare alle sue indiscusse doti virtuosistiche di cui sarebbe quasi inutile farne accenno. Parlo della forte componente teatrale che caratterizza il pianista statunitense in tutte le sue esecuzioni e che cattura l’attenzione del pubblico per lo spettacolo offerto loro in termini di qualità tecnica e prestanza fisica con una generosa dose di ironia.
Come afferma Said, a ridurre progressivamente l’interesse nei confronti di diversi interpreti e pianisti contemporanei, tanto nella classica quanto nel jazz, è proprio il fatto che il loro modo di suonare subisce passivamente il limite imposto dalla cornice che viene imposta loro: un palco, un pianoforte, gli applausi, le connesse gratificazioni economiche e sociali. E’ quello che caratterizzava negli anni ottanta acclamati pianisti come Alfred Brendel, Andrè Watts, Murray Perahia, il cui modo di suonare non doveva entusiasmare particolarmente, se il pubblico pagante e soprattutto la critica preferivano un Maurizio Pollini che si inoltrava nelle sue due ore a disposizione con intensità sempre maggiore e quasi incredibile.
Alla categoria dei pianisti, oserei dire, “conformisti” dell`ultimo ventennio appartiene anche il diretto concorrente di Jarrett, Chick Corea. Quest’ultimo, pur essendo rispettabile per la sua serieta` e la sua onorevole carriera, le sue indiscutibili qualita tecniche, a mio avviso,`non possiedono nulla di eccitante sul piano teatrale.
Le due sessioni normalmente di un’ora ciascuno a cui i grandi club hanno abituato il pubblico del jazz, non fanno altro che cristallizzare le performances concertistiche in un qualcosa che assomiglia sempre più a merce preconfezionata di cui sono complici manager, musicista e non in ultimo il pubblico che, ragionando in termini economici, fa il prezzo.
Un’esperienza simile ricordo di averla vissuta di recente in occasione del concerto di Corea al Blue Note di Milano in trio con Stanley Clarke al contrabbasso e Lenny White alla batteria. (The Power of Three).
Cinquanta minuti di musica di altissimo livello, serviti al pubblico come una cena nel miglior ristorante di Milano.
Corea, col suo solito riso saccente e compiaciuto, misurato e antiteatrale, senza mai “aggredire” e impressionare il pubblico, nonostante le sue formidabili capacità tecniche, lasciò che il mio sguardo incontrasse l’impressionante eccentricità di Clarke in grado di sorprendere facendo vibrare ogni angolo del suo contrabbasso.
Poter vedere, e non solo ascoltare, un’esecuzione musicale, significa per il pubblico fare un’esperienza molto più piena e completa di quell’esecuzione, soprattutto quando sulla scena ci sono professionisti dell’arte musicale come Jarrett e Gould.
Negli ultimi 10 anni ho potuto ascoltare gran parte della sterminata produzione discografica di Keith Jarrett e tutte le volte ho come la sensazione che voglia comunicare qualcosa di nuovo. Un grande compositore/interprete lo si riconosce dal fatto che anche dopo 25 anni di carriera come quelli festeggiati dal Keith Jarrett Standards Trio con l’ultima uscita “Yesterday” (ECM, 2009), riesca ancora ad esprimere qualcosa di profondo.
Mai, come in Jarrett, l’elemento visivo ha avuto effetti tanto importanti nella storia del jazz per il senso di completezza che esso può dare a un’esecuzione musicale in termini di forte partecipazione emozionale.
Ascoltare Jarrett in una registrazione sarebbe come, forzando volutamente i limiti del confronto, privare l’opera teatrale dell’elemento visivo tradendo in questo caso anche la volontà del compositore che ha pensato le parti dei cantanti/attori mettendo in conto gli “ostacoli” che una messa in scena comporta.
Ciò che vediamo può amplificare certe qualità dell’interpretazione o enfatizzare determinati momenti dell’esecuzione in cui dall’artista ci si aspetta il massimo delle sue potenzialità espressive.
L’esperienza di un concerto di Jarrett deve essere vissuta ad occhi aperti partecipando emotivamente alla sua gestualità che mai finirà per compromettere o, in ultima analisi, distruggere le sue intenzioni interpretative.
Quel continuo agitarsi, ondeggiare, sollevarsi al punto di eseguire una cascata di trentaduesimi praticamente in piedi, sono gli effetti evidenti della sua irrefrenabile carica emotiva impossibile da trattenere, che assume connotati “selvaggi” quando lascia che i suoi chorus vengano interamente doppiati, per non dire, generati dai gemiti della sua voce.
In questo testa a testa tra due grandi artisti che hanno contribuito a scrivere la storia musicale del recente passato e che continueranno a segnare il passo per le future generazioni di pianisti compositori e interpreti (tralasciando le differenze di genere che diamo in consegna ai critici), una posizione non poco rilevante l’ha avuta il genio tedesco J.S Bach.
Le sue lezioni sono state pienamente assimilate da colui che oggi è considerato il maggiore interprete di buona parte della produzione tastieristica del compositore di Lipsia, vale a dire Gould, e curiosamente da un “jazzista” la cui tecnica improvvisativa, strizza l’occhio alla prassi polifonico-contrappuntistica del periodo classico.
Il Bach di Gould era un mondo a parte. Gould interpretava la scrittura del tedesco in maniera sublime, suonando, come se intendesse articolare anche delle idee, tant’è che «le sue esecuzioni non si esauriscono in se stesse, ma assurgono al rango di un vero e proprio progetto estetico e culturale» (E.W.Said, Vanity Fair, maggio 1983).
L’incisione delle Variazioni Goldberg di Gould (CBS, 1955) resterà un monumento della storia discografica del secolo scorso , il punto più alto raggiunto nella carriera del pianista canadese prima del passaggio nel 1964 dal palcoscenico al mondo della tecnologia e dell’infinita riproducibilità, ma soprattutto al luogo in cui Gould avrebbe potuto operare un maggior controllo su se stesso e su quello che lo circondava.
Il Bach che riscopriamo in Jarrett non è il Bach compositore di opere didattico-speculative ma è più quello dei Corali, delle Partite delle Invenzioni ovvero tutte opere nate da quell’eccentricità improvvisativa e da quel dono innato per la realizzazione di ardite costruzioni polifoniche che nessun altro ha saputo eguagliare prima e dopo di lui.
Il primo tributo discografico di Jarrett all’arte musicale del Thomaskantor di Lipsia avverrà con l’incisione per la ECM del primo libro del Clavicembalo ben temperato (1987), a cui seguirà, due anni dopo, quella delle Variazioni Goldberg (ECM, 1989). Nel 1990 registra il secondo libro del Clavicembalo ben tempertato, chiudendo il suo intimissimo omaggio a J.S.Bach con l’incisione delle Suite francesi e delle Tre sonate per viola da gamba e cembalo, in duo con Kim Kashkashian, nel 1991.
A parte l’appurata perizia di Jarrett al cembalo, il suo è un Bach più terrestre, meno ispirato e, oserei dire, più convenzionale. Credo che egli abbia volutamente preferito fare un piccolo passo indietro per non farne uno troppo ampio in avanti, in una direzione stilisticamente opposta a quella intrapresa senza eguali da Gould.
A mio avviso l’accostamento del pianista statunitense a Bach va individuato nel suo peculiare approccio all’arte improvvisativa facendo di lui un fenomeno isolato nella scena jazz della seconda metà degli anni cinquanta.
A partire dal trattamento della mano sinistra alla quale sarà concessa maggiore libertà di movimento, svincolandola dalla mera funzione d’accompagnamento e sostegno armonico (Left hand voicing), Jarrett intraprende un cammino di riformulazione della tecnica improvvisativa sfruttando tutte le possibilità offerte da una visione esecutiva non più sempre e solo orizzontale bensì fatta anche di linee verticali.
Le sue idee hanno trovato, solo di recente, una forma più ampia e argomentata in quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, il suo contributo teorico alla prassi pianistica: The Art of improvisation. (Euroarts, 2005).
Ed ecco che durante i suoi soli ascoltiamo bassi ostinati, voci che si intrecciano e si rincorrono, progressioni che per la loro logica e audacia armonica parrebbero in partitura pronte ad essere riprodotte dal prossimo giovane adepto se ad eseguirle non fossero le mani di un eccentrico rivoluzionario pianista americano di nome Keith Jarrett.
Pianista di Charles Lloyd negli anni ’60 e di Miles Davis dieci anni più tardi, autore di meravigliose incisioni tra cui Facing you (1971), che ha segnato l’inizio del sodalizio con l’etichetta tedesca ECM, e di altrettante memorabili performances live in piano solo.
Keith Jarrett, leader del trio più longevo della storia del jazz, nato ad Allentown l’8 maggio del 1945, oggi, si alza dal pianoforte, va al microfono e dice:
No photo, I said. The music s a flux, you don’t understand, it’s a question of respect.
Giù la testa.

Donato D’Attoma